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Questo blog ha lo scopo di far conoscere la realtà delle minoranze linguistiche della provincia di Udine.E’ un tema poco conosciuto in Regione e in Italia.Spero che sia di vostro interesse.

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mercoledì 13 novembre 2024

FRICO FRIULANO


 Il frico  è un piatto a base di formaggio di varie stagionature, accompagnato nella sua versione morbida da patate e cipolla. Considerato la preparazione più tipica del Friuli e della cucina friulana, è riconosciuto tra i prodotti agroalimentari tradizionali friulani e giuliani. È diffuso anche nella vicina Slovenia ed in Carinzia, dove prende il nome di frika.

Questo piatto è stato descritto per la prima volta con il nome di "caso in patellecte" dal maestro Martino da Como, cuoco del patriarca di Aquileia, cardinale Ludovico Trevisan, nella sua opera De Arte Coquinaria verso la metà del XV secolo. Fino alla fine dell'Ottocento il termine in uso aveva l'accento sull'ultima vocale: fricò. Tra la metà Ottocento e soprattutto nel Novecento la lingua italiana ha contaminato il friulano parlato ed, essendo rare in italiano le parole tronche, gradualmente l'accento venne retrocesso.

Si tratta di formaggio cotto in padella con burro o lardo. Si presenta in due versioni: friabile o morbido.

Entrambi si possono servire sia come antipasto che come secondo. Sebbene oggi il frico sia visto come un piatto festivo, tradizionalmente la sua preparazione era finalizzata al recupero dei ritagli di formaggio (strissulis), sottili strisce dall'aspetto simile a mozzarella, parte in eccesso dopo la sagomatura delle forme di formaggio.

Il frico friabile o croccante è molto sottile ed è fatto di solo formaggio (generalmente montasio) che viene fritto nel suo burro. Facile da sagomare è ottimo per delle terrine di funghi o fonduta di montasio. Può essere servito anche come snack.

Il frico morbido si prepara con del formaggio, patate, cipolle (di solito varietà dorata), si presenta come una grossa frittata ed è servito con la polenta.

Si prende del formaggio stagionato (montasio, latteria o malga) da 6 a 12 mesi e lo si grattugia o si taglia a pezzi. Si fa scaldare una padella di ferro unta leggermente (o un tegamino antiaderente) e vi si sparge in uno strato sottile ed uniforme una manciata di formaggio, le cipolle e le patate (a seconda delle dimensioni della padella e della quantità di formaggio, lo strato sarà pressoché circolare con un diametro dai 10 ai 15 centimetri). Si schiaccia con una paletta per far uscire il grasso in eccesso e, quando è dorato, lo si stacca con cura (per non romperlo) dal tegame e lo si fa rosolare dall'altro lato. Togliere dalla padella e far raffreddare su una carta assorbente da cucina.

Ne risulta un biscotto di formaggio friabile e molto saporito. Nella tradizione la cottura avveniva sulla stufa a legna; su fuochi a gas o elettrici si ottengono comunque ottimi risultati. 

da wikipedia


14 NOVEMBRE giornata mondiale del DIABETE

 La Giornata Mondiale del Diabete



Lanciata nel 1992 la Giornata Mondiale del Diabete è un’iniziativa della Federazione Internazionale del Diabete (IDF) e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) creata in risposta all’incidenza crescente del diabete nel mondo. Il  dicembre 2006 l’assemblea generale delle Nazione Unite ha adottato la risoluzione 61/225 che sancisce la Giornata Mondiale del Diabete come giornata ufficiale dell’ONU e riconosce il diabete come “una malattia cronica, invalidante e costosa che comporta gravi complicanze”.

Il progetto della Giornata Mondiale del Diabete prevede due distinti target di riferimento: la popolazione che non conosce il diabete, le istituzioni.

Comunicare il diabete a chi non lo ha non è semplice. Si tratta di una malattia con diverse forme (le principali sono il diabete tipo 1 e il tipo 2).

Chi non lo conosce ha due urgenti bisogni:

  1. sapere come riconoscere il tipo 1 per evitare possibili ritardi nella diagnosi, principalmente nel caso di bambini e giovani;
  2. prevenire il più possibile il diabete tipo 2, valutando il rischio di potersi ammalare.

Ecco quindi che due semplici sintomi, tanta sete e tanta pipì possono permettere di individuare precocemente il diabete tipo 1 e il questionario findrisk permette invece di capire che rischio si ha di diventare diabetici di tipo 2 entro 10 anni.

dal web

martedì 12 novembre 2024

Manifesto contro il razzisno


 Dedico questo post a tutti quelli che continuano ad avere pregiudizi razziali, ricordando che buoni e cattivi, esistono dappertutto. Il mondo è meticcio dalla sua nascita, non esistono razze tranne una: quella umana!


Nel 2008 un gruppo di scienziati e intellettuali, ha smontato tutte le teorie razziste, punto per punto.

Manifesto degli scienziati antirazzisti 2008 contro ogni razzismo

I. Le razze umane non esistono. L’esistenza delle razze umane è un’astrazione derivante da una cattiva interpretazione di piccole differenze fisiche fra persone, percepite dai nostri sensi, erroneamente associate a differenze “psicologiche” e interpretate sulla base di pregiudizi secolari. Queste astratte suddivisioni, basate sull'idea che gli umani formino gruppi biologicamente ed ereditariamente ben distinti, sono pure invenzioni da sempre utilizzate per classificare arbitrariamente uomini e donne in “migliori” e “peggiori” e quindi discriminare questi ultimi (sempre i più deboli), dopo averli additati come la chiave di tutti i mali nei momenti di crisi.

II. L’umanità, non è fatta di grandi e piccole razze. È invece, prima di tutto, una rete di persone collegate. È vero che gli esseri umani si aggregano in gruppi d’individui, comunità locali, etnie, nazioni, civiltà; ma questo non avviene in quanto hanno gli stessi geni ma perché condividono storie di vita, ideali e religioni, costumi e comportamenti, arti e stili di vita, ovvero culture. Le aggregazioni non sono mai rese stabili da DNA identici; al contrario, sono soggette a profondi mutamenti storici: si formano, si trasformano, si mescolano, si frammentano e dissolvono con una rapidità incompatibile con i tempi richiesti da processi di selezione genetica.

III. Nella specie umana il concetto di razza non ha significato biologico. L’analisi dei DNA umani ha dimostrato che la variabilità genetica nelle nostra specie, oltre che minore di quella dei nostri “cugini” scimpanzé, gorilla e orangutan, è rappresentata soprattutto da differenze fra persone della stessa popolazione, mentre le differenze fra popolazioni e fra continenti diversi sono piccole. I geni di due individui della stessa popolazione sono in media solo leggermente più simili fra loro di quelli di persone che vivono in continenti diversi. Proprio a causa di queste differenze ridotte fra popolazioni, neanche gli scienziati razzisti sono mai riusciti a definire di quante razze sia costituita la nostra specie, e hanno prodotto stime oscillanti fra le due e le duecento razze.

IV. È ormai più che assodato il carattere falso, costruito e pernicioso del mito nazista della identificazione con la “razza ariana, coincidente con l’immagine di un popolo bellicoso, vincitore, “puro” e “nobile”, con buona parte dell’Europa, dell’India e dell’Asia centrale come patria, e una lingua in teoria alla base delle lingue indo-europee. Sotto il profilo storico risulta estremamente difficile identificare gli Arii o Ariani come un popolo, e la nozione di famiglia linguistica indo-europea deriva da una classificazione convenzionale. I dati archeologici moderni indicano, al contrario, che l’Europa è stata popolata nel Paleolitico da una popolazione di origine africana da cui tutti discendiamo, a cui nel Neolitico si sono sovrapposti altri immigranti provenienti dal Vicino Oriente. L’origine degli Italiani attuali risale agli stessi immigrati africani e mediorientali che costituiscono tuttora il tessuto perennemente vivo dell’Europa. Nonostante la drammatica originalità del razzismo fascista, si deve all’alleato nazista l’identificazione anche degli italiani con gli “ariani”.

V. È una leggenda che i sessanta milioni di italiani di oggi discendano da famiglie che abitano l’Italia da almeno un millennio. Gli stessi Romani hanno costruito il loro impero inglobando persone di diverse provenienze e dando loro lo status di cives romani. I fenomeni di meticciamento culturale e sociale, che hanno caratterizzato l’intera storia della penisola, e a cui hanno partecipato non solo le popolazioni locali, ma anche greci, fenici, ebrei, africani, ispanici, oltre ai cosiddetti ”barbari”, hanno prodotto l’ibrido che chiamiamo cultura italiana. Per secoli gli italiani, anche se dispersi nel mondo e divisi in Italia in piccoli Stati, hanno continuato a identificarsi e ad essere identificati con questa cultura complessa e variegata, umanistica e scientifica.

VI. Non esiste una razza italiana ma esiste un popolo italiano. L’Italia come Nazione si è unificata solo nel 1860 e ancora adesso diversi milioni di italiani, in passato emigrati e spesso concentrati in città e quartieri stranieri, si dicono e sono tali. Una delle nostre maggiori ricchezze, è quella di avere mescolato tanti popoli e avere scambiato con loro culture proprio “incrociandoci” fisicamente e culturalmente. Attribuire ad una inesistente “purezza del sangue” la “nobiltà” della “Nazione” significa ridurre alla omogeneità di una supposta componente biologica e agli abitanti dell’attuale territorio italiano, un patrimonio millenario ed esteso di culture.

VII. Il razzismo è contemporaneamente omicida e suicida. Gli Imperi sono diventati tali grazie alla convivenza di popoli e culture diverse, ma sono improvvisamente collassati quando si sono frammentati. Così é avvenuto e avviene nelle Nazioni con le guerre civili e quando, per arginare crisi le minoranze sono state prese come capri espiatori. Il razzismo è suicida perché non colpisce solo gli appartenenti a popoli diversi ma gli stessi che lo praticano. La tendenza all’odio indiscriminato che lo alimenta, si estende per contagio ideale ad ogni alterità esterna o estranea rispetto ad una definizione sempre più ristretta della “normalità”. Colpisce quelli che stanno “fuori dalle righe”, i “folli”, i “poveri di spirito”, i gay e le lesbiche, i poeti, gli artisti, gli scrittori alternativi, tutti coloro che non sono omologabili a tipologie umane standard e che in realtà permettono all’umanità di cambiare continuamente e quindi di vivere. Qualsiasi sistema vivente resta tale, infatti, solo se é capace di cambiarsi e noi esseri umani cambiamo sempre meno con i geni e sempre più con le invenzioni dei nostri “benevolmente disordinati” cervelli.

VIII. Il razzismo discrimina, nega i collegamenti, intravede minacce nei pensieri e nei comportamenti diversi. Per i difensori della razza italiana l’Africa appare come una paurosa minaccia e il Mediterraneo è il mare che nello stesso tempo separa e unisce. Per questo i razzisti sostengono che non esiste una “comune razza mediterranea”. Per spingere più indietro l’Africa gli scienziati razzisti erigono una barriera contro “semiti” e “camiti”, con cui più facilmente si può entrare in contatto. La scienza ha chiarito che non esiste una chiara distinzione genetica fra i Mediterranei d’Europa (Occidentali) da una parte gli Orientali e gli Africani dall’altra. Sono state assolutamente dimostrate, dal punto di vista paleontologico e da quello genetico, le teorie che sostengono l’origine africana dei popoli della terra e li comprendono tutti in un’unica razza.

IX. Gli ebrei italiani sono contemporaneamente ebrei ed italiani. Gli ebrei, come tutti i popoli migranti ( nessuno é migrante per libera scelta ma molti lo sono per necessità) sono sparsi per il Mondo ed hanno fatto parte di diverse culture pur mantenendo contemporaneamente una loro identità di popolo e di religione. Così é successo ad esempio con gli armeni, con gli stessi italiani emigranti e così sta succedendo con i migranti di ora: africani, filippini, cinesi, arabi dei diversi Paesi , popoli appartenenti all’Est europeo o al Sud America ecc. Tutti questi popoli hanno avuto la dolorosa necessità di dover migrare ma anche la fortuna, nei casi migliori, di arricchirsi unendo la loro cultura a quella degli ospitanti, arricchendo anche loro, senza annullare, quando é stato possibile, né l’una né l’altra.


X. L’ideologia razzista è basata sul timore della “alterazione” della propria razza eppure essere “bastardi” fa bene. È quindi del tutto cieca rispetto al fatto che molte società riconoscono che sposarsi fuori, perfino con i propri nemici, è bene, perché sanno che le alleanze sono molto più preziose delle barriere. Del resto negli umani i caratteri fisici alterano più per effetto delle condizioni di vita che per selezione e i caratteri psicologici degli individui e dei popoli non stanno scritti nei loro geni. Il “meticciamento” culturale è la base fondante della speranza di progresso che deriva dalla costituzione della Unione Europea. Un’Italia razzista che si frammentasse in “etnie” separate come la ex-Jugoslavia sarebbe devastata e devastante ora e per il futuro. Le conseguenze del razzismo sono infatti epocali: significano perdita di cultura e di plasticità, omicidio e suicidio, frammentazione e implosione non controllabili perché originate dalla ripulsa indiscriminata per chiunque consideriamo “altro da noi”.

Tenuta di San Rossore - Pisa, 10 e 11 Luglio 2008

Primi firmatari:
  • Enrico Alleva, Docente di Etologia, Istituto Superiore di Sanità, Roma
  • Guido Barbujani, Docente di Genetica di popolazioni, Università Ferrara
  • Marcello Buiatti, Docente di Genetica, Università di Firenze
  • Laura dalla Ragione, Psichiatra e psicoterapeuta, Perugia
  • Elena Gagliasso, Docente di Filosofia e Scienze del vivente, Università La Sapienza, Roma
  • Rita Levi Montalcini, Neurobiologa, Premio Nobel per la Medicina
  • Massimo Livi Bacci, Docente di demografia, Università di Firenze
  • Alberto Piazza, Docente di Genetica Umana, Università di Torino
  • Agostino Pirella, Psichiatra, co-fondatore di Psichiatria democratica, Torino
  • Francesco Remotti, Docente di Antropologia culturale, Università di Torino
  • Filippo Tempia, Docente di Fisiologia, Università di Torino 

Facciamo girare questo manifesto sul web, per dire basta al razzismo e a tutti i pregiudizi.

lunedì 11 novembre 2024

I LAGHI DI FUSINE e ROMANO BENET

Di Johann Jaritz

 laghi di Fusine (lâgs di Fusinis in friulano[1]Weißenfelser Seen, in tedescoBelopeška jezera in sloveno) sono un complesso di due piccoli laghi, il lago Superiore ed il lago Inferiore, situati a breve distanza l'uno dall'altro nel territorio del comune di Tarvisio (frazione Fusine LaghiFriuli-Venezia Giulia) e considerati fra i più begli esempi di lago alpino.

Di origine glaciale, sono collocati in un anfiteatro calcareo creato dalla dorsale del Picco di Mezzodì del monte Mangart. La valle, che corre parallela al confine italo-sloveno e non lontano da quello italo-austriaco, dal 1971 è un'area protetta con il nome di Parco naturale dei Laghi di Fusine.

Il lago Superiore si trova a 929 m s.l.m., ha una profondità massima di 10 m e una superficie di 9 ha; il lago Inferiore, più ampio e profondo, si trova a 924 m s.l.m., ha una profondità massima di 25 m e una superficie di 13,5 ha. Nelle vicinanze del lago Inferiore ci sono altri due minuscoli specchi d'acqua, chiamati laghi piccoli. Il lago Superiore alimenta il lago Inferiore per via sotterranea e quest'ultimo alimenta l'emissario di entrambi i laghi.

In inverno la zona dei laghi è uno dei posti più freddi di tutta la regione: spesso vi si registrano le temperature tra le più basse d'Italia insieme al Cansiglio (al secondo, terzo e quarto posto si collocano rispettivamente le Melette di Gallio e di Foza sull'Altopiano di Asiago, seguite dalla val di Landro tra DobbiacoCortina d'Ampezzo e l'altopiano di Livigno).

A partire dal 2009 si sta approntando una stazione meteorologica ad alta tecnologia per studiare con maggiore profondità il microclima della zona. Risulta molto fredda la parte iniziale del lago Inferiore ed anche Alpe Tamer posta sotto il Mangart, che, secondo rilevamenti non ufficiali, il 6 gennaio 1985 ha raggiunto i -34 °C. I fattori principali che generano queste temperature sono il sottosuolo carsico e la scarsa illuminazione invernale. Perciò i laghi sono ghiacciati da inizio dicembre fino a marzo in annate normali.

da wikipedia


Di Dreamy Pixel - http://dreamypixel.com/forest-mountains-foggy-winter-evening/, CC BY 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=67553144

«Per alcuni era lei che mi portava in Himalaya e per altri invece si faceva tirare su da me. Chi non frequenta l'Himalaya forse non sa che ciascuno basta appena a sé stesso; [...] per me andare con mia moglie era già di per sé un traguardo.»

Romano Benet
NazionalitàItalia (bandiera) Italia Slovenia (bandiera) Slovenia
Alpinismo 
 

Romano Benet (Tarvisio20 aprile 1962) è un alpinista italiano naturalizzato sloveno.

Tra i maggiori alpinisti italiani e sloveni[2], è il sedicesimo uomo nella storia e quarto italiano ad aver scalato le 14 cime più alte del mondo senza l'uso di ossigeno supplementare. Lui e la moglie Nives Meroi, inoltre, sono i primi scalatori in assoluto ad aver compiuto l'impresa in coppia (sia nel senso alpinistico, sia nel senso civile).[3]

Nato e cresciuto a Tarvisio da genitori sloveni,[4] qui conosce Nives Meroi, che diventa sua moglie nel 1989 e compagna fissa di cordata. Inizia lavorando come perito meccanico per una impresa svizzera attiva nella costruzione di tunnel, successivamente entra nel corpo della guardia forestale, rimanendovi per 17 anni, impegnato prima in dogana con lavori di vigilanza nell'ambito della Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione, poi nel servizio faunistico.[4] Inizia a scalare le montagne della sua area a 17 anni, per la via “Piussi-Soravito, 600 m, 5+” del Mangart, con un amico coetaneo.[4]

In coppia con la moglie, sulle Alpi, compie la prima invernale al Pilastro Piussi alla parete nord del Piccolo Mangart di Coritenza e quella alla Cengia degli Dei, sullo Jof Fuart.[5]

Comincia la carriera alpinistica himalayana negli anni 1990, tentando il K2 dal versante nord e l'Everest. Nel 1998, lui e la moglie conquistano il loro primo ottomila, il Nanga Parbat. Nel 2003 la coppia compie la traversata dei tre ottomila Gasherbrum IGasherbrum II e Broad Peak, risultando la seconda cordata al mondo a riuscire nell'impresa.[5]

Di grande valore la conquista della cima del K2 del 2006 attraverso lo Sperone Abruzzi.[6] Benet e Meroi raggiungono la cima da soli, senza l'ausilio di ossigeno supplementare e senza aiuti nel battere la traccia su tutto il percorso.[7] Nel 2006 solo altri due giapponesi, ma con l'uso di ossigeno supplementare, raggiungono la vetta della montagna.

Nel 2007 conquista l'Everest senza l'uso di ossigeno supplementare. Con la salita in vetta al Manaslu dell'ottobre 2008, la coppia conquista l'undicesimo ottomila.[8]

Nel 2009 lascia il corpo forestale per dedicarsi completamente all'attività alpinistica,[4] gestendo inoltre un negozio di abbigliamento sportivo nel suo comune.[9] Nella stagione estiva dello stesso anno abbandona il tentativo di scalata dell'Annapurna I a causa delle condizioni proibitive della neve[10] e il tentativo di scalata del Kangchenjunga a seguito di problemi di salute tra il campo 3 e il campo 4 della montagna.[11]

Tornato in Italia, scopre d'essere affetto da un'aplasia midollare severa. I successivi due trapianti di midollo osseo, i trattamenti di chemioterapia e le numerose trasfusioni lo tengono lontano dall'attività per più di due anni.[4][12][13]

Dopo la riabilitazione, torna all'alpinismo himalayano nel 2012, tentando con la moglie il Kangchenjunga e conquistandone la vetta poi nel 2014, reduce da un ulteriore intervento per l'inserimento di una protesi all'anca.[14]

Il 12 maggio 2016 Bennet e Meroi raggiungono la cima del Makalu.[15]

Nel febbraio del 2017, in coppia con lo sloveno Tine Cuder, apre a Rio Vandul in Val Raccolana, una nuova via di ghiaccio e misto di 135m gradata M7, WI6+. Aveva già precedentemente scalato le cascate ghiacciate dell'area nel 2006 con Luca Vuerich, compagno di cordata della coppia anche su cinque degli ottomila scalati.[16]

Giovedì 11 maggio 2017, alle ore 9 locali, raggiunge insieme alla moglie la vetta dell'Annapurna I, decidendo personalmente di cambiare via durante la salita passando dalla via tedesca a quella storica francese,[17] conquistando così tutte le quattordici vette sopra gli ottomila nel mondo, anche in questo caso senza l'ausilio di ossigeno supplementare né di portatori. Si tratta del sedicesimo alpinista nella storia a compiere questa impresa senza l'uso di ossigeno supplementare. I due, inoltre, sono i primi in assoluto ad aver compiuto l'impresa in coppia.[3]

Su di lui Erri de Luca ha scritto:

«Ha una bussola in testa, sa dove andare quando non si vede a un passo e gli altri hanno la sola scelta di mettersi a sedere e aspettare una schiarita. Lui, un piede dietro l'altro, fiuta la direzione e arriva. L'ha imparato nei boschi, non si perde mai. Legge la neve, la capisce.»


San Martino


 San Martino di Carducci

Non si può inoltre non citare la celebre poesia di Carducci, che intitolata al Santo ci parla di mosto, di nebbia, di autunno e caldarroste, tutto ciò che il nome San Martino evoca nella tradizione.

.La nebbia a gl'irti colli

piovigginando sale,
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar;

ma per le vie del borgo
dal ribollir de' tini
va l'aspro odor dei vini
l'anime a rallegrar.

Gira su' ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando:
sta il cacciator fischiando
su l'uscio a rimirar

tra le rossastre nubi
stormi d'uccelli neri,
com'esuli pensieri,
nel vespero migrar.

La nebbia a gl'irti colli
piovigginando sale,
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar;

ma per le vie del borgo
dal ribollir de' tini
va l'aspro odor dei vini
l'anime a rallegrar.

Gira su' ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando:
sta il cacciator fischiando
su l'uscio a rimirar

tra le rossastre nubi
stormi d'uccelli neri,
com'esuli pensieri,


Ma, previsioni a parte, perché si chiama così? La leggenda più diffusa vuole che, proprio l’11 Novembre, San Martino abbia incontrato un povero, nudo e infreddolito, mentre faceva una passeggiata a cavallo nei pressi della città di Amiens, in Francia. Il freddo era pungente e il Santo non esitò a tagliare in due il suo mantello per offrire un riparo anche al viandante. Il gesto sarebbe stato così apprezzato che, proprio mentre donava metà del suo mantello al povero, spuntò un sole caldo.

Poesia di Patrizia Cavalli

 

FOTOGRAFIA © GIOVANNI/PEXELS

PATRIZIA CAVALLI

OGNI BELLA GIORNATA DI NOVEMBRE

Ogni bella giornata di novembre
è quasi sempre un’occasione persa.
La luce ha fretta
la luce di novembre non aspetta,
ci pensi sopra e non è più in offerta.
E ci si illanguidisce alla promessa
di una felicità, ah, più che certa
se solo avessi avuto l’accortezza
di predisporre il giusto materiale: 
un giro inconcludente in bicicletta
e labbra sfaccendate da baciare.

(da Pigre divinità e pigra sorte, Einaudi, 2006)

da il canto delle sirene


domenica 10 novembre 2024

FELIX® Purina - Ser gato es genial

Fiorella Mannoia - Il Cielo D'Irlanda (Testo)

Proverbio friulano

 


Il proverbio friulano della settimana

di Vita nei campi
“A San Martin si scuén vê finîs duc’ ju lavôrs, e no sei un indevant e un indevour” ovvero a San Martino (l’11 novembre) si deve aver terminato tutti i lavori in campagna e non deve esserci uno in anticipo e uno in ritardo.

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Sono un'insegnante elementare che è andata in pensione dopo 37 anni di insegnamento.Abito a Pordenone ma sono legata alla Val Torre da dove proviene mio marito.I miei genitori hanno diretto per 27 anni il giornale Matajur che fu portavoce della Benečija.

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